25 settembre 2005-25 settembre 2009: R.I.P. Federico!
La notte del 25 settembre 2005, dopo una chiamata al 113 di una signora spaventata segnalava la presenza di un ragazzo «che sbatteva dappertutto» presso l'ippodromo di Ferrara, una pattuglia della polizia interveniva a fermare il giovane Aldrovandi. Secondo il rapporto della Questura, all'arrivo della volante vi fu una colluttazione tra il ragazzo ed i quattro agenti (tre uomini ed una donna), che dovettero procedere alla sua immobilizzazionE. Allle 6.04 la prima pattuglia richiedeva alla propria centrale operativa l'invio di un'ambulanza del 118, per un sopraggiunto malore. Secondo i tabulati dell'intervento, alle 6.10 arrivò la chiamata da parte del 113 a Ferrara Soccorso, che inviò sul posto un'autoambulanza ed un'automedica, giunte sul posto rispettivamente alle 6.15 ed alle 6.18. All'arrivo sul posto il personale del 118 trovava il paziente “riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena (...) era incosciente e non rispondeva”. L'intervento si concluse, dopo numerosi tentativi di rianimazione cardiopolmonare, con la constatazione sul posto della morte del giovane, per “arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale”
La famiglia venne avvertita solamente alle 11 del mattino, quasi cinque ore dopo la constatazione del decesso. I genitori, di fronte alle numerose lesioni ed ecchimosi presenti sul corpo del ragazzo, ritennero poco credibile la morte per un malore. Il 2 gennaio 2006 la madre di Federico aprì un blog su internet, chiedendo che venisse fatta luce su alcuni contorni oscuri di tutta la vicenda. Questo causò un'accelerazione delle indagini, peraltro già in corso.
Il 20 febbraio 2006 vennero depositati i risultati della perizia medico legale disposta dal Pubblico Ministero, secondo la quale “la causa e le modalità della morte di A. risiedono in una insufficienza miocardica contrattile acuta (...) conseguente all'assunzione di eroina, ketamina ed alcool”.
Secondo un'indagine medico–legale, depositata il 28 febbraio dai periti della famiglia, dall'esame autoptico la causa ultima di morte sarebbe stata “un'anossia posturale”, dovuta al caricamento sulla schiena di uno o più poliziotti durante l'immobilizzazione. Per quanto riguarda l'assunzione di droghe, la quantità di sostanze tossiche assunte dal giovane era la medesima rilevata dai periti della Procura, ma assolutamente non sufficiente a causare l'arresto respiratorio.
Nel frattempo la notorietà della storia aumentava sempre di più, grazie alla mobilitazione di associazioni, comitati, scuole, del Consiglio comunale di Ferrara, arrivando fino alla partecipazione a trasmissioni televisive nazionali
Il 15 marzo 2006 arrivò la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati dei quattro agenti che avevano proceduto all'arresto di Aldrovandi, per omicidio colposo. L'avviso di garanzia venne notificato loro il 6 aprile. Il 16 giugno si tenne il primo incidente probatorio, di fronte al Giudice per le indagini preliminari, fra la famiglia della vittima, i quattro imputati ed una testimone oculare dell'accaduto, che confermò le violenze e la compressione fisica esercitata su Federico.
Dalle indagini nel frattempo emergevano vari elementi incoerenti, come il fatto che il PM non fosse andato a compiere un sopralluogo sulla scena del decesso; che non fosse stata sequestrata l'automobile su cui, a detta degli agenti, si sarebbe ferito Aldrovandi; che non fossero stati sequestrati i manganelli, di cui due rotti, come confermato dall'on. Carlo Giovanardi in corso di interrogazione parlamentare, ed infine che il nastro contenente le comunicazioni fra il 113 e la pattuglia fosse stato messo a disposizione della Procura soltanto molto tempo dopo. Per questi motivi venne aperta una seconda inchiesta presso la Procura di Ferrara, per vari reati, tra cui falso, omissione e mancata trasmissione di atti.
L'11 novembre venne depositata la perizia eseguita a Torino, in cui veniva escluso categoricamente un nesso fra la morte e le sostanze psicotrope assunte da Aldrovandi, e secondo la quale la causa del decesso era una morte improvvisa per insufficienza funzionale cardio-respiratoria.
Il 10 gennaio 2007 venivano formalmente rinviati a giudizio, per omicidio colposo, gli agenti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri, per aver ecceduto i limiti dell'adempimento di un dovere, per aver procrastinato la violenza anche dopo aver vinto la resistenza del giovane, e per aver ritardato l'intervento dell'ambulanza.
Il 26 giugno, per la prima volta, vengono interrogati durante il processo i quattro imputati, i quali si dichiarano stupiti della morte della vittima, che "stava benissimo" prima dell'arrivo dei sanitari, mentre la registrazione della Centrale operativa riporta chiaramente: "... l'abbiamo bastonato di brutto. Adesso è svenuto, non so... È mezzo morto". Ancora, gli agenti raccontarono che i due sfollagente si sarebbero rotti per un calcio di Aldrovandi, e per una caduta accidentale di un poliziotto. Sempre secondo la deposizione, l'ambulanza fu chiamata immediatamente, mentre non fu utilizzato il defibrillatore automatico di cui era dotata la volante poiché Aldrovandi non aveva "mai dato segni di sofferenza".
Il 19 giugno 2009, il pubblico ministero titolare del caso ha pronunciato una requisitoria in cui ha chiesto 3 anni e 8 mesi per Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani e Luca Pollastri,i poliziotti implicati
Il 6 luglio 2009 il tribunale di Ferrara, giudice Francesco Maria Caruso, ha condannato a tre anni e sei mesi i quattro poliziotti accusati di eccesso colposo nell'omicidio colposo di Aldrovandi. I quattro condannati, grazie all'indulto varato nel 2006, non sconteranno la loro pena.
Già che ci sono potrebbero dare la tessera del tifoso anche a questi quattro leoni... E' il primo passo verso la beatificazione!
Lettera aperta al ministro Maroni:
Ill.mo Ministro degli Interni
p.c. Presidente della Repubblica
p.c. Presidente del Consiglio
p.c. Ministro di Giustizia
p.c. Sindaco di Brescia
p.c. Prefetto di Brescia
p.c. Questore di Brescia
p.c. Sindaco di Verona
p.c. giornali e tv
scrivo questa lettera alla vigilia dell’anniversario di una data che mi ha cambiato la vita: il 24 settembre del 2005.
Mi presento: sono Paolo Scaroni, abito a Castenedolo, piccolo paese della provincia di Brescia.
Ero un allevatore di tori.
Ero un ragazzo normale, con amicizie, una ragazza, passioni, sani valori -anche sportivi- e la giusta curiosità. Facevo infatti molto sport e viaggiavo quando potevo.
Ero soprattutto un grande tifoso del Brescia.
Una persona normale, come tante, direbbe Lei.
Oggi non lo sono più (per la verità tifoso del Brescia lo sono rimasto, sebbene non possa più vivere la partita allo stadio com’ero solito fare: cantando, saltando, godendo oppure soffrendo).
Tutto è cambiato il 24 settembre del 2005, nella stazione di Porta Nuova a Verona.
Quel giorno, alla pari di migliaia di tifosi bresciani -fra i quali molte famiglie e bambini- avevo deciso di seguire la Leonessa a Verona con le migliori intenzioni, per quella che si preannunciava una sfida decisiva per il nostro campionato di serie B. Finita la partita, siamo stati scortati in stazione dalla polizia senza nessun intoppo o tensione. Dopo essermi recato al bar sottostante la stazione, stavo tornando con molta serenità al treno riservato a noi tifosi portando dell’acqua al resto della compagnia (era stata una giornata molto calda ed eravamo quasi tutti disidratati). Tutti gli altri tifosi erano già pronti sui vagoni per fare velocemente ritorno a Brescia. Mancavano pochi minuti ed i binari della stazione erano completamente deserti. Cosa alquanto strana visto il periodo, l’orario e soprattutto la città in cui eravamo, centro nevralgico per il passaggio dei treni.
Improvvisamente, senza alcun preavviso o motivo apparente, sono stato travolto da una carica di “alleggerimento” del reparto celere in servizio quel giorno per mantenere l’ordine pubblico e picchiato a sangue, senza avere nemmeno la possibilità di ripararmi. Sottratto al pestaggio dagli amici (colpiti loro stessi dalla furia delle manganellate), sono entrato in coma nel giro di pochissimo e quasi morto.
Dopo circa venti minuti dall’aver perso conoscenza sono stato caricato su un’ambulanza -osteggiata, più o meno velatamente, dallo stesso reparto che mi aveva aggredito- e trasportato all’ospedale di Borgo Trento a Verona. Lì sono stato operato d’urgenza. Lì sono stato salvato. Lì sono tornato dal coma dopo molte settimane. Lì ho passato alcuni mesi della mia nuova vita. Una vita d’inferno.
Nel frattempo la mia famiglia, in uno stato d’animo che fatico ad immaginare, subiva pressioni e minacce affinché la mia vicenda mantenesse un basso profilo.
Ai miei amici non andava certo meglio, nonostante tutti gli sforzi per far uscire la verità.
Ovviamente, alcune cose di cui sopra le ho sapute molto tempo dopo la mia aggressione. Il resto l’ho scoperto grazie al lavoro del mio avvocato.
Dalla ricostruzione dei fatti e tramite le tante testimonianze, emerge un quadro inquietante, quasi da non credere; ma proprio per questo da rendere pubblico.
In seguito alle gravissime lesioni subite, presso la Procura della Repubblica di Verona è iniziato un procedimento a carico di alcuni poliziotti e funzionari identificati quali autori delle lesioni da me subite. Nonostante il Giudice per le Indagini Preliminari abbia respinto due volte la richiesta d’archiviazione, il Pubblico Ministero non ha ancora esercitato l’azione penale contro gli indagati.
Mi domando per quale ragione ciò avvenga e perché mi sia negata giustizia.
Oggi, dopo avere perso quasi tutto, rimango perciò nell’attesa di un processo, nemmeno tanto scontato, considerati i precedenti ed i tentativi di screditarmi. Oltretutto i poliziotti erano tutti a volto coperto, quindi non identificabili (com’è possibile tutto questo?), sebbene a comandarli ci fosse una persona riconoscibilissima.
Dopo le tante bugie e cattiverie uscite in modo strumentale sul mio conto a seguito della vicenda, aspetto soprattutto che mi venga restituita la dignità.
Ill.mo Ministro degli Interni, sebbene la mia vicenda non abbia destato lo stesso scalpore, ricorda un po’ le tragedie di Gabriele Sandri, di Carlo Giuliani, ed in particolare di Federico Aldrovandi (accaduta a poche ore di distanza dalla mia), con una piccola, grande differenza: io la mia storia la posso ancora raccontare, nonostante tutto.
Le dinamiche delle vicende sopra citate forse non saranno identiche, ma la volontà di uccidere sì, è stata la medesima. Altrimenti non si spiega l’accanimento di queste persone nei miei confronti, soprattutto se si considera che non vi era una reale situazione di pericolo: era tutto tranquillo; ero caduto a terra; ero completamente inerme. Ma le manganellate, come descrive il referto medico, non si sono più fermate.
Forse, ho pensato, oltre alla vita volevano togliermi anche l’anima.
Per farla breve, in pochi secondi ho perso quasi tutto quello per cui avevo vissuto -per questo mi sento ogni giorno più vicino a Federico- e senza un motivo apparente. Sempre ovviamente che esista una giustificazione per scatenare tanta crudeltà ed efficienza.
Le mie funzioni fisiche sono state ridotte notevolmente, e nonostante la lunga riabilitazione a cui mi sottopongo da anni con molta tenacia non avrò molti margini di miglioramento. Questo lo so quasi con certezza: l’unica cosa funzionante come prima nel mio corpo infatti è il cervello, attivo come non mai. Dopo quattro anni non ho ancora stabilito se questa sia stata una fortuna.
Ho perso il lavoro, sebbene abbia un padre caparbio che insiste nel mandare avanti la mia ditta, sottraendo tempo e valore ai suoi impegni.
Ho perso la ragazza.
Ho perso il gusto del viaggiare (il più delle volte quelli che erano itinerari di piacere si sono trasformati in veri e propri calvari a causa delle mie condizioni fisiche), nonostante mi spinga ancora molto lontano.
Ho perso soprattutto molte certezze, relative alla Libertà, al Rispetto, alla Dignità, alla Giustizia e soprattutto alla Sicurezza.
Quella sicurezza che Lei invoca ogni giorno, e tenta d’imporre sommando nuove leggi e nuove norme a quelle già esistenti (fino a ieri molto efficaci, almeno per l’opinione pubblica).
Peccato però che queste leggi non abbiano saputo difendere me, Federico, Carlo e Gabriele dagli eccessi di coloro che rappresentavano, in quel momento, le istituzioni.
Ill.mo Ministro degli Interni, alcune cose mi martellano più di tutto: ogni giorno mi domando infatti cosa possa spingere degli uomini a tanto. Non ho la risposta.
Ogni giorno mi domando se qualcuna di queste tragedie potesse essere evitata. La risposta è sempre quella: sì.
A mio modesto parere, ciò che ha permesso a queste persone di liberare la parte peggiore di sé è stata la sicurezza di farla franca.
Sembra un paradosso, ma in un Paese come il nostro in cui si parla tanto di “certezza della pena”, di “responsabilità” e di “omertà”, proprio coloro che dovrebbero dare l’esempio agiscono impuniti infrangendo ogni legge scritta e non, disonorano razionalmente la divisa e l’istituzione rappresentata, difendono chi fra loro sbaglia impunemente.
Ill.mo Ministro degli Interni, dopo tante elucubrazioni, sono giunto ad una conclusione: se queste persone fossero state immediatamente riconoscibili, responsabili perciò delle loro azioni, non si sarebbero comportate in quella maniera ed io non avrei perso tanto.
Le chiedo quindi: com’è possibile che in Italia i poliziotti non portino un segno di riconoscimento immediato come accade nella maggior parte delle Nazioni europee?
Ill.mo Ministro degli Interni, io non cerco vendetta, semmai Giustizia.
Mi appello a Lei ed a tutte le persone di buon senso affinché questi uomini vengano fermati ed impossibilitati nello svolgere ancora il loro “dovere”.
Chiedo quindi che si faccia il processo e nulla sia insabbiato.
Cordiali saluti.
Paolo Scaroni, vittima di uno Stato distratto.
p.c. Presidente della Repubblica
p.c. Presidente del Consiglio
p.c. Ministro di Giustizia
p.c. Sindaco di Brescia
p.c. Prefetto di Brescia
p.c. Questore di Brescia
p.c. Sindaco di Verona
p.c. giornali e tv
scrivo questa lettera alla vigilia dell’anniversario di una data che mi ha cambiato la vita: il 24 settembre del 2005.
Mi presento: sono Paolo Scaroni, abito a Castenedolo, piccolo paese della provincia di Brescia.
Ero un allevatore di tori.
Ero un ragazzo normale, con amicizie, una ragazza, passioni, sani valori -anche sportivi- e la giusta curiosità. Facevo infatti molto sport e viaggiavo quando potevo.
Ero soprattutto un grande tifoso del Brescia.
Una persona normale, come tante, direbbe Lei.
Oggi non lo sono più (per la verità tifoso del Brescia lo sono rimasto, sebbene non possa più vivere la partita allo stadio com’ero solito fare: cantando, saltando, godendo oppure soffrendo).
Tutto è cambiato il 24 settembre del 2005, nella stazione di Porta Nuova a Verona.
Quel giorno, alla pari di migliaia di tifosi bresciani -fra i quali molte famiglie e bambini- avevo deciso di seguire la Leonessa a Verona con le migliori intenzioni, per quella che si preannunciava una sfida decisiva per il nostro campionato di serie B. Finita la partita, siamo stati scortati in stazione dalla polizia senza nessun intoppo o tensione. Dopo essermi recato al bar sottostante la stazione, stavo tornando con molta serenità al treno riservato a noi tifosi portando dell’acqua al resto della compagnia (era stata una giornata molto calda ed eravamo quasi tutti disidratati). Tutti gli altri tifosi erano già pronti sui vagoni per fare velocemente ritorno a Brescia. Mancavano pochi minuti ed i binari della stazione erano completamente deserti. Cosa alquanto strana visto il periodo, l’orario e soprattutto la città in cui eravamo, centro nevralgico per il passaggio dei treni.
Improvvisamente, senza alcun preavviso o motivo apparente, sono stato travolto da una carica di “alleggerimento” del reparto celere in servizio quel giorno per mantenere l’ordine pubblico e picchiato a sangue, senza avere nemmeno la possibilità di ripararmi. Sottratto al pestaggio dagli amici (colpiti loro stessi dalla furia delle manganellate), sono entrato in coma nel giro di pochissimo e quasi morto.
Dopo circa venti minuti dall’aver perso conoscenza sono stato caricato su un’ambulanza -osteggiata, più o meno velatamente, dallo stesso reparto che mi aveva aggredito- e trasportato all’ospedale di Borgo Trento a Verona. Lì sono stato operato d’urgenza. Lì sono stato salvato. Lì sono tornato dal coma dopo molte settimane. Lì ho passato alcuni mesi della mia nuova vita. Una vita d’inferno.
Nel frattempo la mia famiglia, in uno stato d’animo che fatico ad immaginare, subiva pressioni e minacce affinché la mia vicenda mantenesse un basso profilo.
Ai miei amici non andava certo meglio, nonostante tutti gli sforzi per far uscire la verità.
Ovviamente, alcune cose di cui sopra le ho sapute molto tempo dopo la mia aggressione. Il resto l’ho scoperto grazie al lavoro del mio avvocato.
Dalla ricostruzione dei fatti e tramite le tante testimonianze, emerge un quadro inquietante, quasi da non credere; ma proprio per questo da rendere pubblico.
In seguito alle gravissime lesioni subite, presso la Procura della Repubblica di Verona è iniziato un procedimento a carico di alcuni poliziotti e funzionari identificati quali autori delle lesioni da me subite. Nonostante il Giudice per le Indagini Preliminari abbia respinto due volte la richiesta d’archiviazione, il Pubblico Ministero non ha ancora esercitato l’azione penale contro gli indagati.
Mi domando per quale ragione ciò avvenga e perché mi sia negata giustizia.
Oggi, dopo avere perso quasi tutto, rimango perciò nell’attesa di un processo, nemmeno tanto scontato, considerati i precedenti ed i tentativi di screditarmi. Oltretutto i poliziotti erano tutti a volto coperto, quindi non identificabili (com’è possibile tutto questo?), sebbene a comandarli ci fosse una persona riconoscibilissima.
Dopo le tante bugie e cattiverie uscite in modo strumentale sul mio conto a seguito della vicenda, aspetto soprattutto che mi venga restituita la dignità.
Ill.mo Ministro degli Interni, sebbene la mia vicenda non abbia destato lo stesso scalpore, ricorda un po’ le tragedie di Gabriele Sandri, di Carlo Giuliani, ed in particolare di Federico Aldrovandi (accaduta a poche ore di distanza dalla mia), con una piccola, grande differenza: io la mia storia la posso ancora raccontare, nonostante tutto.
Le dinamiche delle vicende sopra citate forse non saranno identiche, ma la volontà di uccidere sì, è stata la medesima. Altrimenti non si spiega l’accanimento di queste persone nei miei confronti, soprattutto se si considera che non vi era una reale situazione di pericolo: era tutto tranquillo; ero caduto a terra; ero completamente inerme. Ma le manganellate, come descrive il referto medico, non si sono più fermate.
Forse, ho pensato, oltre alla vita volevano togliermi anche l’anima.
Per farla breve, in pochi secondi ho perso quasi tutto quello per cui avevo vissuto -per questo mi sento ogni giorno più vicino a Federico- e senza un motivo apparente. Sempre ovviamente che esista una giustificazione per scatenare tanta crudeltà ed efficienza.
Le mie funzioni fisiche sono state ridotte notevolmente, e nonostante la lunga riabilitazione a cui mi sottopongo da anni con molta tenacia non avrò molti margini di miglioramento. Questo lo so quasi con certezza: l’unica cosa funzionante come prima nel mio corpo infatti è il cervello, attivo come non mai. Dopo quattro anni non ho ancora stabilito se questa sia stata una fortuna.
Ho perso il lavoro, sebbene abbia un padre caparbio che insiste nel mandare avanti la mia ditta, sottraendo tempo e valore ai suoi impegni.
Ho perso la ragazza.
Ho perso il gusto del viaggiare (il più delle volte quelli che erano itinerari di piacere si sono trasformati in veri e propri calvari a causa delle mie condizioni fisiche), nonostante mi spinga ancora molto lontano.
Ho perso soprattutto molte certezze, relative alla Libertà, al Rispetto, alla Dignità, alla Giustizia e soprattutto alla Sicurezza.
Quella sicurezza che Lei invoca ogni giorno, e tenta d’imporre sommando nuove leggi e nuove norme a quelle già esistenti (fino a ieri molto efficaci, almeno per l’opinione pubblica).
Peccato però che queste leggi non abbiano saputo difendere me, Federico, Carlo e Gabriele dagli eccessi di coloro che rappresentavano, in quel momento, le istituzioni.
Ill.mo Ministro degli Interni, alcune cose mi martellano più di tutto: ogni giorno mi domando infatti cosa possa spingere degli uomini a tanto. Non ho la risposta.
Ogni giorno mi domando se qualcuna di queste tragedie potesse essere evitata. La risposta è sempre quella: sì.
A mio modesto parere, ciò che ha permesso a queste persone di liberare la parte peggiore di sé è stata la sicurezza di farla franca.
Sembra un paradosso, ma in un Paese come il nostro in cui si parla tanto di “certezza della pena”, di “responsabilità” e di “omertà”, proprio coloro che dovrebbero dare l’esempio agiscono impuniti infrangendo ogni legge scritta e non, disonorano razionalmente la divisa e l’istituzione rappresentata, difendono chi fra loro sbaglia impunemente.
Ill.mo Ministro degli Interni, dopo tante elucubrazioni, sono giunto ad una conclusione: se queste persone fossero state immediatamente riconoscibili, responsabili perciò delle loro azioni, non si sarebbero comportate in quella maniera ed io non avrei perso tanto.
Le chiedo quindi: com’è possibile che in Italia i poliziotti non portino un segno di riconoscimento immediato come accade nella maggior parte delle Nazioni europee?
Ill.mo Ministro degli Interni, io non cerco vendetta, semmai Giustizia.
Mi appello a Lei ed a tutte le persone di buon senso affinché questi uomini vengano fermati ed impossibilitati nello svolgere ancora il loro “dovere”.
Chiedo quindi che si faccia il processo e nulla sia insabbiato.
Cordiali saluti.
Paolo Scaroni, vittima di uno Stato distratto.
Parole sante. Sarei curioso di conoscere la risposta di Maroni. Sempre che abbia argomenti.
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