giovedì 18 novembre 2010

IL COLLASSO DEL CALCIO TELEVISIVO...

Premessa: non voglio fare l'ipocrita dicendo che "sono contro Sky". Diciamocelo chiaro: Sky è un bel canale e sinceramente ha una qualità che Rai e Mediaset se la sognano di notte! Tuttavia non penso di dire nulla di sbagliato se giudico esagerato lo strapotere assoluto che la pay-tv ha nei confronti del calcio italiano. Partite giocate in qualsiasi giorno, a qualsiasi orario, in qualsiasi posto del mondo per "esigenze televisive": nel resto d'Europa non è così, ed anche se le sue belle porcate ci sono anche all'estero, sono ben coscienti che i primi da tutelare sono i tifosi CHE PAGANO IL BIGLIETTO! In itaGlia come al solito siamo in "leggera" controtendenza, e da buoni italioti non siamo in grado di fare un programma serio su nulla, ma siamo bravissimi a passare la lingua sul culo a chiunque abbia più di un milione di euro sul conto. Per chi non condividerà e magari penserà che "se vengono da te con i soldi voglio vedere..." (ragionamento tipico del bravo italiota medio per cui calarsi i pantaloni è una cosa normale...) rispondo: mettereste sul marciapiede vostra madre per soldi? Vendereste gli organi di vostro figlio per soldi? I soldi piacciono a tutti, ma si possono ottenere anche senza l'avidità tipica di molti italioti "dei piani di comando", che hanno in programma solo di arricchirsi il più possibile prima di fuggire all'estero il giorno che questo paese scoppierà definitivamente! Riflettete...
Fonte: La Nazione

Arezzo, 16 ottobre 2010 - E’ il volto oscuro della pay tv, del calcio consumato immagine per immagine, fotogramma per fotogramma ogni maledetto sabato e ogni maledetta domenica, davanti a uno schermo panoramico da quaranta pollici o magari davanti a un nuovissimo monitor in 3D, con gli occhialini e presto senza. Non solo perchè su Sky o Mediaset non vedremo mai l’Arezzo che arranca in serie D, i giocatori della Sangiovannese che vanno in trasferta a Venturina con le loro auto private visto che la società non può permettersi di pagare il pullman, o i calciatori del Montevarchi che scendono in campo con quasi mezz’ora di ritardo per protestare contro l’Aquila che non paga gli stipendi.
No, questa cronaca minuta delle nostre domeniche da figli di un calcio minore sono anche la conseguenza di come è cambiato il mondo del pallone con l’avvento delle partite a pagamento: tutto e in diretta ma o sei dentro o sei fuori. O in Tv ci vai perchè ne sei un protagonista oppure ti devi rassegnare a un calcio senza soldi e senza identità. Un calcio, per usare una metafora, da mondo dell’avanspettacolo di una volta, quando il capocomico avvertiva le sue ballerine: bambole non c’è una lira.
L’Arezzo quel mondo dorato di lustrini, di belle intervistatrici, di moviole che sezionano ogni particolare di un’azione l’ha anche sfiorato. Chissà, forse ci sarebbe ancora dentro, non fosse stato per Calciopoli con la sua penalizzazione e una Juve distratta (speriamo solo distratta) all’ultima giornata. Poi la favola bella è svanita ed è arrivato questo risveglio da cenerentola cenciosa della serie D. Le altre aretine, dalla Sangio all’Aquila, non ci sono mai arrivate neppure vicine per ovvie dimensioni, eppure ne pagano le conseguenze. Anche per l’incapacità di adattarsi a un modello di football che in certe categorie deve essere necessariamente più modesto, più umano. Pane e salame. Come dimostra, ad esempio il Sansepolcro, che in D ci sta da Dio, unico esempio locale di adeguamento all’evoluzione della specie.
Riassumiamo alla Fontamara di Silone. In capo a tutto c’è la serie A, padrona del cielo e della terra, oggetto del desiderio di milioni di tifosi. Poi viene la serie B, che è la sua ancella, ancora con diritti Tv e contributi federali. Poi niente, poi ancora niente e poi ancora niente. Poi vengono i cafoni (absit iniuria verbis) della serie C, i poveri cristi della serie D, i nesci dei dilettanti. Che contano niente e pesano anche meno.
Tanto per essere chiari, il pallone, oggi come ieri, va avanti con una benzina che si chiama denaro. I quattrini abbondano (e infatti vengono sprecati) in A, dove le pay tv fanno a gara ad ingrassare le protagoniste, e sono relativamente sufficienti in B, cui arrivano almeno le briciole della torta. Ma diventano un pio desiderio nelle serie inferiori, dove si spende e non si incassa. Se non quattro soldi di spettatori, ma oggi come oggi i biglietti contano pochissimo in un bilancio di serie A (con borderò da 50 mila presenze), figuriamoci in serie C o serie D. Anche perchè di tifosi in tribuna ce ne sono sempre meno, specie nelle categorie minori. Ma perchè, scusate, un appassionato dovrebbe andare a prendere freddo, sole e acqua in uno stadio o in un campo sportivo di periferia, per vedere un terzinaccio che stoppa la palla dieci metri, quando seduto comodamente in poltrona si può vedere i fuoriclasse del calcio nazionale (ma anche inglese, spagnolo o tedesco)? E’ la legge della domanda e dell’offerta. E l’Arezzo, ahinoi, come la Sangio o l’Aquila, sono drammaticamente inadeguati. Per non parlare della delusione del tifo amaranto dopo le vicissitudini di quest’estate.
Quando va bene sono mille spettatori a partita, quanti ne faceva trent’anni fa un Subbiano. Ma allora chi voleva vedere una partita dal vivo doveva necessariamente accomodarsi sugli spalti del suo paese o della sua città, salvo sognarsi il grande calcio con la radiolina inchiodata all’orecchio e alle cronache di Ameri e Ciotti. Poi l’avvento della Pay Tv ha fatto tabula rasa. Dentro o fuori.
L’Arezzo appunto era dentro. E infatti l’allora presidente Mancini, esecratissimo, riscuoteva 4 milioni fra diritti tv e contributi federali e tirava avanti alla grande, scoprendo o comprando fior di campioni. Fino all’incidente, Calciopoli, che ha buttato fuori lui e la città dal paradiso. Fuori la vita è durissima. Perchè le spese restano altissime: i calciatori professionisti bisogna pagarli, gli allenatori idem, i costi fissi anche. Ma gli introiti non ci sono più. Ed ecco lo spettro del fallimento o della liquidazione, dei pullman non pagati e delle scadenze di stipendio saltate.  
A dire il vero, un modo di salvare capre e cavoli ci sarebbe. Valorizzare ogni anno almeno un giocatore da vendere bene sul mercato per pagare l’intero giocattolo. Lo fa bene il Sansepolcro in D e anche Mancini, con i suoi difetti abissali, ce l’ha fatta per un paio d’anni (vedi alle voci Floro Flores, Ranocchia, Martinetti), poi alla prima stagione in cui non aveva nessuno da mettere in vetrina è saltato come un tappo di champagne. Alla Sangio e all’Aquila non ci sono state parabole altrettanto eclatanti, ma le difficoltà più o meno sono quelle.
Capita dunque che ad Arezzo si faccia fatica (al di là delle ipotesi alla Totò) a trovare un padrone disposto a metterci 400 mila euro, vedi le esilaranti trattative degli ultimi giorni. Dice un noto imprenditore, di quelli che i soldi potrebbe anche averli: "Metterci 400 mila euro? Fossi matto. O scopro un giocatore da valorizzare o ci rimetto tutto". Ecco l’ostacolo è proprio qui: nessuno è disposto a buttare quattrini dalla finestra per un calcio senza futuro. Meglio guardarsi i lustrini, le belle donne e il grande football in pay tv.
di SALVATORE MANNINO

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