C’è una spiegazione per ogni cosa. E allora ci sarà pure un motivo per cui per Euro 2016, l’Italia è arrivata terza su tre candidate, alle spalle di Francia e (pure!) Turchia? E se siamo l’unico Paese al mondo ad avere questo tipo di Tessera del Tifoso, sempre più forcone e ghigliottina per il pubblico, una ragione plausibile ci sarà? E qualcosa vorrà dire se nel Vecchio Continente siamo tra le nazioni meno competitive per sistema di governance del calcio? (l’UEFA tra un mezzo e mezzo farà giocare in Champions ed Europa League solo i club con rapporti coi propri tifosi, vietati in Italia dalla L. 41/07) E se siamo rilegati nei bassifondi della graduatoria per modernità e comfort degli stadi? (69 anni di vecchiaia in media)
Certo, delle risposte ci saranno. Anzi, le risposte ci sono eccome.
E allora, senza peli sulla lingua, io comincio a dire che l’Italia è tra i paesi a cultura calcistica più sottosviluppata d’Europa e che il mondo del calcio da troppi anni vive in una condizione di segregazione culturale terzomondista (calcisticamente parlando).
Motivo? Tanti, troppi. Tra questi certamente anche un’informazione assuefatta e complice di un sistema inceppato sin dagli ingranaggi di base.
Nonostante decine di canali tv su analogico, digitale e satellitare, nonostante centinaia di programmi radiofonici, periodici specializzati e ben 3 quotidiani di settore e uno monotematico, in Italia c’è penuria di una razza (antica) in via d’estinzione: il giornalista (sportivo) d’inchiesta.
Già negli anni ‘20, parlando d’informazione, Lord John Reiht (storico direttore della BBC), sosteneva la tesi che il giornalista è chiamato a svolgere la funzione del cane da guardia della società civile, cioè per professione il cronista deve cercare, raccontare e proteggere la verità dei fatti dagli interessi di parte dei poteri forti, restando – forte del suo mestiere - a salvaguardia di terzietà e libertà collettive, libertà d’espressione, di assenso e di dissenso (fondamentali per una democrazia compiuta).
Da noi, ahimè, le cose sembrano andare esattamente all’opposto.
Troppe poche volte (o per nulla) il giornalista sportivo fa inchiesta e critica (e di scandali da raccontare, ce ne sarebbero a iosa!). In Italia non sarebbe mai troppo il bisogno di indagare sulle cose di calcio (e affini). Ma, soprattutto, in Italia non si crea opinione pubblica consapevole e non si fa cultura calcistica colta, intesa come responsabile e autonoma.
Faccio una mia breve diagnosi: il giornalismo sportivo è vittima di logiche stereotipate. Vado in ordine: 1) campanilismo manicheo, 2) intrattenimento notiziario, 3) moralismo umorale.
Cosa voglio dire?
Che chi scrive, commenta e dibatte nel mondo dell’informazione sportiva (di calcio) è prigioniero di logiche superficiali ancorate alle tesi del bene e al male (campanile, per cui - ad esempio - è meglio tifare l’Inter sul Milan e viceversa). E’ prigioniero dello snocciolamento di dati fini a se stessi (quando e dove si allena il Napoli, con chi va a cena Del Piero e su quale cuscino dorme la notte Totti, alias gossip/intrattenimento). In Italia siamo ostaggio di un fin troppo semplicistico moralismo impulsivo (giustamente ci si indigna dei pochi deliranti cori che l’altro giorno hanno profanato il lutto dell’Hesyel, ma si fa poco e nulla per costruire un percorso di pacificazione e memoria condivisa sulle vittime di quella stessa strage come di altri CUORI TIFOSI, casi di cronaca nera fuori e dentro le nostre curve).
Questi siamo noi.
Così va l’informazione sportiva (di calcio).
Procede all’italiana, allineata e coperta. A fuoco lento.
Ma verrà il momento di cambiar rotta.
Prima o poi…
Maurizio Martucci
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